“Un Chant D’Amour” rappresenta una delle primissime spore di quello che sarà poi il cinema Queer, atta a germogliare nell’opera di Jarman, Morrissey, Ozon e via dicendo.
Cortometraggio scandaloso se inserito nel suo tempo (siamo nel 1950), in cui l’autore riesce, in una manciata di minuti, a esprimere tutta l’impellenza della sua poetica, senza però far perdere autonomia all’opera, rendendolo un frammento a se stante rispetto alla produzione letteraria, slegata dalla potenza del logos genettiano e pregno di una propria autorialità.
Genet ci guida all’interno di un carcere archetipico, con il secondino canonicamente sadico e voyeurista, gli ospiti scultorei come l’Apollo del Belvedere, privati completamente del loro machismo e rinchiusi all’interno di celle\microcosmi, che il voyeur osserva dallo spioncino, rivelandone d’ognuno i giochi malinconicamente omoerotici ed i sogni apparentemente riconciliatori e disperatamente utopici, rappresentati dalla corona di fiori, che per tutto l’opera mani inermi cercheranno di stringere.
Il Tempo, come la cinghia del secondino, colpisce ininterrottamente lo spettatore,: non ne conosciamo il suo scorrere, scontiamo una pena di cui non conosciamo ne l’inizio ne la fine, siamo prigionieri senza pareti in cui segnare il passato e il presente.
Nessun commento:
Posta un commento