domenica 24 agosto 2014

Pastoral: To Die In The Country, di Shuji Terayama (1974)


Pastoral è l’anti-Amarcord nipponico.

Federico Fellini elabora il suo personale percorso di introspezione nostalgica, attraverso la deformazione caricaturale prodotta dal ricordo infantile, ancorando però le suggestioni di ciò che è passato a un contesto –non- evanescente, saldamente contestualizzato nella realtà riminese degli anni ’30.
I suoi personaggi sono esagerati, fumettistici, ma sempre e comunque geocalizzati.
Terayama abbraccia la stessa struttura, percorre lo stesso percorso, ma la sua caratterizzazione anziché essere caricaturale,  è mitologica.
Il Luogo non c’è: i suoi ricordi vengono collocati in un spazio-tempo ancestrale, un iperspazio bucolico che ci rimanda in un Aldilà sulfureo, che pare quello di “Jigoku” di Nakagawa (1960), o quello della nostrana Lucania vista dagli occhi di Brunello Rondi in “Il Demonio” (1963).
Il paesino agreste, attorcigliato nelle proprie credenze, che paiono così forti da manipolare la realtà stessa,  l’oppressione che esercitano sul giovane Terayama, bloccato nella sua casa-orologio, in cui la madre-anch’essa orologio- fa scorrere inevitabilmente il tempo, che pare onnipresente: nel decor, nell’occhio della camera, nei fondali che spesso vengono tagliati da orologi fumanti appesi a corde che scendono dall’Alt(r)o, orologi che ci stringono i polsi per ricordarci che abbiamo sempre e comunque da crepare.
Nel paesino di Terayama sono tutti morti.
Gli orologi gli hanno divorati: i visi sono bianchi, gli abiti neri, e la vita nuova pare uscire dai grembi già morta, destinata a seguire il corso delle rapide senza più tornare.
Terayama vuole un orologio da polso, ma la madre-padrona lo vieta: la fine va’ guardata nei grandi orologi a pendolo appesi alle pareti, in quanto la schiavitù  deve essere totale, monolitica: il ragazzo deve seguire il suo scorrere e il suo –non- scorrere dalla sua casa prigione: egli è vittima nel passato di una madre che non vuole far fluire la vita (bloccandolo nell’infanzia, vietandogli la circoncisione), egli è vittima nel presente di un passato immobile, bloccato, che Terayama adulto cerca di dipingere tramite lenti colorate, fughe d’amore mai avvenute, personaggi surreali che ha mitizzato nel corso del tempo rapportandoli alla propria posizione di bambino –orologio senza lancette-, come il gruppo di circensi, che ridono della morte perché possessori di orologi da polso, strumenti che permettono il Fluire della vita, in antitesi coi macigni ticchettanti di casa Terayama, feretri da 12+12 ore al giorno.

Terayama adulto penetra nel proprio passato per aiutare il Terayama bambino a compiere un matricidio: solo con l’omicidio della donna il tempo potrà continuare a fluire. Lo snodo temporale avverrà con la perdita –matricidio- della verginità di Terayama, per mano dell’infanticida del paese, rinata dopo la soppressione del bambino –orologio-.


















domenica 3 agosto 2014

Khaneh Syah Ast||The House Is Black, di Forough Farrokhzad (1963)


Primo e unico documentario di Forough Farrokhzad, poetessa e attivista iraniana scomparsa nel 1967.

Behkadeh Raji è la prima colonia di lebbrosi, fondata per mano di Farah Pahlavi in Iran, nel 1961.
Strutturata come una comunità autosufficiente, la colonia, il  cui corpus architettonico ci viene negato (la Forough ce ne mostra solo piccoli pezzi, come se fosse anch’esso, il corpo in lenta disgregazione dei degenti), bassa le proprie fondamenta sui ai pilastri dell’Antico Testamento, del Corano, di Farah Pahlavi.
Si insegna l’amore incondizionato: le bocche purulente pregano il Cristo, lo ringraziano giungendo le mani, serrando occhi ormai morti, bianchi come la palla che i figli del morbo si scambiano in giardino, inseguendola, ridendo come qualsiasi altro bambino nei parchi cittadini, perché nella colonia quello che si insegue è una costante normalità.
Ai lebbrosi s’insegna ad apprezzare il dono, quel corpo, quella vita che si sbriciola piano, sotto le vesti, in mezzo ai banchi di scuola.
Il maestro chiede agli studenti di citare delle cose che ritengono buone, belle, e allora timidamente rispondono: il Sole, il Cielo, il Terra. Poi si chiede loro di parlare del brutto, e allora si vede quando sia fallace l’amore incondizionato, l’accettazione della sorte è una cosa che va’ imparata, che va’ instillataa con l’insegnamento, con l’autoconvinzione, con la costanza, perché il brutto è: la Testa, le Mani, i Piedi, i primi pezzi a cadere. E allora la casa è Nera, perché Dio dona un cielo sereno, ma il mio corpo si disgrega, e Mamma e Papà li ha divorati tempo fa.
La Forough mostra per tutta la durata del documentario, squarci di vita assolutamente quotidiani: la raccolta dell’acqua, i pasti, gli insegnamenti [il dottore, le visite, gli occhi morti], piccoli gesti femminei non ancora estinti dal morbo (come il pettinarsi i lungi capelli, lo specchiarsi), fino a giungere all’esplicativo finale, in cui  i giovani lebbrosi disvelano quello che le immagini avevano cercato di simulare: la natura dell’essere umano è ben distante dall’accettare la volontà , la sorte impostagli da un Dio che predica l’Amore e porta il corpo, quello dei genitori, degli amici, il proprio a smarrirsi lentamente.
La purezza dell’infante, sgomina il Logos dell’adulto, a cui però è destinato, prima o poi, a soccombere.