venerdì 21 marzo 2014

Nymphomaniac, di Lars Von Trier (2013)

Joe, una Messalina post-litteram,  viene rinvenuta in stato di incoscienza da Seligman, letterato sionista , Petrarca liliale del XXI secolo, a cui la donna decide di esporre il proprio personalissimo Decameron.
L’austera camera di Seligman, privata d’ogni orpello, come si sovviene nei casi in cui l’essere umano decida di votare definitivamente il proprio  Io a qualcosa di non  empirico (come le lettere o il Cristo in croce), non è altro che una proiezione del luogo stesso in cui sono e saranno seduti gli Specator.
I Seligman in sala, sono coloro destinati a rompere l’imene della polifonica avventura di Joe\Von Trier ascoltando, confrontando con il proprio, impersonalissimo, bagaglio culturale: gli spectator, noi, loro, essi parteciperemo sì alle misandriche e fiabesche imprese di Joe, ma lo faremo proprio ponendo in modo, sicuramente indisponente e disgraziatamente intellettualistico, il cultural bagaglio davanti al volto del nostro interlocutore. 
L’opera la vedremo attraverso la manualistica, la letteratura  e tutte le altre cose che più ci soggettivamente aggradano.
Proprio come Seligman, si cercherà continuamente di deviare l’opera verso campi e luoghi a noi già noti, portando il narratore a dover furbescamente contestualizzare il racconto in lidi favorevoli al narratario (la Pesca, il grande Scisma della Chiesa, l’ensemble favorito ecc.) senza però snaturarne il senso, e allo stesso tempo allietando il sedimentato e insicuro ego  intellettualistico dell’ascoltatore, culturalmente obeso che diviene incredibilmente asessuato ed idiosincratico difronte alla Nuova Fabula, chiedendo , in modo timidamente verginale, che almeno i luoghi siano a lui famigliari, in modo da riuscire ad affrontare, senza interruzioni di coito, il nuovo intreccio.
Nymphomaniac è costruito al dettaglio per guidare loro (noi), i Seligman, al macello. Ogni capitolo ci riporta a qualcosa di noto, donandoci perfino strumenti per studiarne il percorso ( La successione di Fibonacci, l’empirismo che aiuta il nostro sionista a non perdersi nelle infinitesime vie della sottomissione, ed il paradosso di Zenone, la deduzione per sostenere le altrettanto infinitesime possibilità dell’intreccio), richiami a opere filmiche del regista e non (pensiamo a Tarkovskij), per poi mostrarci, la netta e terribile differenza che c’è tra la (meta-) comprensione di un’opera ed il reale  possesso del messaggio comunicato.
Seligman comprende, d’altronde il logos lo ha reso “aperto”, gli ha fornito degli strumenti che lui ritiene, peccando, necessari al totale accoglimento spirituale, paterno, delle mille sfaccettature dell’Antropos. Pecca convincendosi di poter nobilitare la figura della Puttana di Babilonia, in modo assolutamente egoico, quasi fosse una prova di conoscenza, trovandosi però poi , di fronte al sesso nudo di Joe, inerme e sessuato, come tutti, come il popolino che proprio con l’uscita ufficiosa di questa ultima fatica di Lars Von Trier si rivelerà tale, sorridendo in imbarazzo di fronte al fallo eretto della proprio inettitudine,  e al Coitus Interruptus della propria imbarazzante, provincialità europea.
Nymphomaniac è un atto solitario.
E’ un lungo iter narrativo, un’Odissea ingannevolmente letteraria, che nella propria coralità è elogio all’individualismo più assoluto.
Da vedere lasciando i “bagagli” a casa.


domenica 16 marzo 2014

Titicut Follies, di Frederick Wiseman (1967)


Wiseman costruisce questa opera prima attorno ad un erratico viaggio nei corridoi micro\macrocosmici del manicomio criminale di Titicut nel Massachussets.
Dico “macro” in quanto le immagini mostrate vanno ben oltre la concezione topografica di luogo, Titicut è un non luogo, non ne vedremo mai un esterno, né un vago accenno all’architettura o dimensione topografica.
Titicut è un paradosso, uno spettacolo senza attori, ruoli e atti, come il musical interpretato dagli stessi detenuti e carcerieri posto a Preludio e Chiusura, ci fa capire.
Wiseman però non opera nessuna messa in scena, la sua camera viaggia negli spazi, seguendo degenti, dottori, guardie, senza distinzioni poiché i ruoli stessi non esistono, la sanità è un gioco, un vestito che può essere scambiato, come la stella dello sceriffo o il cappello di piume Cherokee nel gioco degli indiani e cowboy tra bambini.
A Titicut si svolge ogni giorno un immenso ballo in maschera, una Totentanz in cui anche se le divise sono diverse si segue per costrizione o per scelta  lo stesso medesimo ritmo, incostante, epilettico, nevrotico ma comunque egualitario per tutti i “personaggi” dell’opera. I ruoli giurisdizionali vengono sì seguiti,  la gerarchia che viene a mancare è prettamente legata alla Psychè: la delirante performance canora della guardia negli ultimi minuti della pellicola non è poi così diversa dalla masturbazione nel giardino del penitenziario da parte di un detenuto di colore.
Wiseman fa’ venire meno il vacuo filo raziocinante dei ruoli grazie al montaggio, operando a una selezione ed accostamento del materiale girato tipicamente sovietico, in cui il metaforico uso dell’immagine (che non è affatto snaturazante, lo scopo non è di certo la propaganda né, a mio parere, la denuncia) porta a paradossali parallelismi, che purtroppo sono “paradosso” nella sola definizione letteraria.












sabato 8 marzo 2014

La Collina dei Conigli, di Martin Rosen (1978)


Un Demiurgo astrale apre l’opera animata di Rosen.
Si generano le bestie,  il cane, il gatto, il fecondo coniglio.
Bestia quest’ultima, talmente prolifica e affamata da osteggiare il demiurgico disegno.
L’Astrale non può far altro che modificare il cosmologico bestiario: i gatti, le volpi, gli uomini saranno allora i carnefici, ed i conigli gli affamati martiri.
Come Esopo, prima con Adams (autore dell’omonimo libro), poi con Rosen su celluloide, viene messa in scena una antropomorfizzata favola\parabola moderna, in cui la comunità dei conigli (stupidamente umani), intraprende il proprio Esodo, fuggendo da una visione rosso sangue, trovandosi però dinnanzi a ciò che lo stesso Demiurgo non sarebbe mai stato in grado di prevedere: il pericolo più grande non è insito nell’Altro (i carnefici della catena alimentare) ma nella stessa razza d’appartenenza. Saranno infatti gli stessi fratelli di sangue a ostacolare la lunga marcia della piccola comunità verso la terra promessa, in cima alla collina.
L’opera di Rosen è canonica, non trascende il tipo di animazione tipica del ventennio 60\80, che fece la fortuna dei ben più colossali produzioni “per piccoli”.
Tuttavia l’onirismo non manca, spesso una vena ribelle tradisce l’opera, sfociante nell’ottica psichedelica (un germe, neanche troppo fugace, figlio del suo tempo), mostrando a più riprese il lato volutamente Esserico dei martirizzati abitanti della conigliera di Sandleford.
Il prodotto di Rosen pur essendo esplicitamente “Just for Kids” (e lo è, innegabile il contrario. Basti pensare alla “fauna”  dei personaggi, tipici esemplari di archetipi junghiami, in cui il luogo comune e il buon cuore strasborda dai piccoli e, a quanto pare luciferini, corpi), appare spesso crudele, di una crudeltà del tutto estranea all’ambiente naturalistico in cui si svolge, appartenente a una socìetas puramente umana, in cui i meccanismi di socializzazione sono  figli dell’ingranaggio d’esclusione, in cui la socialità appare spesso Meccanica (escludendo il diverso, aiutando il simile per consuetudine) o Solidale (celando però fini meramente egoistici e disturbati).
Mai si sono viste bestie più umane.