domenica 16 marzo 2014

Titicut Follies, di Frederick Wiseman (1967)


Wiseman costruisce questa opera prima attorno ad un erratico viaggio nei corridoi micro\macrocosmici del manicomio criminale di Titicut nel Massachussets.
Dico “macro” in quanto le immagini mostrate vanno ben oltre la concezione topografica di luogo, Titicut è un non luogo, non ne vedremo mai un esterno, né un vago accenno all’architettura o dimensione topografica.
Titicut è un paradosso, uno spettacolo senza attori, ruoli e atti, come il musical interpretato dagli stessi detenuti e carcerieri posto a Preludio e Chiusura, ci fa capire.
Wiseman però non opera nessuna messa in scena, la sua camera viaggia negli spazi, seguendo degenti, dottori, guardie, senza distinzioni poiché i ruoli stessi non esistono, la sanità è un gioco, un vestito che può essere scambiato, come la stella dello sceriffo o il cappello di piume Cherokee nel gioco degli indiani e cowboy tra bambini.
A Titicut si svolge ogni giorno un immenso ballo in maschera, una Totentanz in cui anche se le divise sono diverse si segue per costrizione o per scelta  lo stesso medesimo ritmo, incostante, epilettico, nevrotico ma comunque egualitario per tutti i “personaggi” dell’opera. I ruoli giurisdizionali vengono sì seguiti,  la gerarchia che viene a mancare è prettamente legata alla Psychè: la delirante performance canora della guardia negli ultimi minuti della pellicola non è poi così diversa dalla masturbazione nel giardino del penitenziario da parte di un detenuto di colore.
Wiseman fa’ venire meno il vacuo filo raziocinante dei ruoli grazie al montaggio, operando a una selezione ed accostamento del materiale girato tipicamente sovietico, in cui il metaforico uso dell’immagine (che non è affatto snaturazante, lo scopo non è di certo la propaganda né, a mio parere, la denuncia) porta a paradossali parallelismi, che purtroppo sono “paradosso” nella sola definizione letteraria.












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