domenica 3 agosto 2014

Khaneh Syah Ast||The House Is Black, di Forough Farrokhzad (1963)


Primo e unico documentario di Forough Farrokhzad, poetessa e attivista iraniana scomparsa nel 1967.

Behkadeh Raji è la prima colonia di lebbrosi, fondata per mano di Farah Pahlavi in Iran, nel 1961.
Strutturata come una comunità autosufficiente, la colonia, il  cui corpus architettonico ci viene negato (la Forough ce ne mostra solo piccoli pezzi, come se fosse anch’esso, il corpo in lenta disgregazione dei degenti), bassa le proprie fondamenta sui ai pilastri dell’Antico Testamento, del Corano, di Farah Pahlavi.
Si insegna l’amore incondizionato: le bocche purulente pregano il Cristo, lo ringraziano giungendo le mani, serrando occhi ormai morti, bianchi come la palla che i figli del morbo si scambiano in giardino, inseguendola, ridendo come qualsiasi altro bambino nei parchi cittadini, perché nella colonia quello che si insegue è una costante normalità.
Ai lebbrosi s’insegna ad apprezzare il dono, quel corpo, quella vita che si sbriciola piano, sotto le vesti, in mezzo ai banchi di scuola.
Il maestro chiede agli studenti di citare delle cose che ritengono buone, belle, e allora timidamente rispondono: il Sole, il Cielo, il Terra. Poi si chiede loro di parlare del brutto, e allora si vede quando sia fallace l’amore incondizionato, l’accettazione della sorte è una cosa che va’ imparata, che va’ instillataa con l’insegnamento, con l’autoconvinzione, con la costanza, perché il brutto è: la Testa, le Mani, i Piedi, i primi pezzi a cadere. E allora la casa è Nera, perché Dio dona un cielo sereno, ma il mio corpo si disgrega, e Mamma e Papà li ha divorati tempo fa.
La Forough mostra per tutta la durata del documentario, squarci di vita assolutamente quotidiani: la raccolta dell’acqua, i pasti, gli insegnamenti [il dottore, le visite, gli occhi morti], piccoli gesti femminei non ancora estinti dal morbo (come il pettinarsi i lungi capelli, lo specchiarsi), fino a giungere all’esplicativo finale, in cui  i giovani lebbrosi disvelano quello che le immagini avevano cercato di simulare: la natura dell’essere umano è ben distante dall’accettare la volontà , la sorte impostagli da un Dio che predica l’Amore e porta il corpo, quello dei genitori, degli amici, il proprio a smarrirsi lentamente.
La purezza dell’infante, sgomina il Logos dell’adulto, a cui però è destinato, prima o poi, a soccombere.














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